Arrivai alla Piana la sera prima di quel grande rastrellamento ed ero la latrice di un ordine del Comando del Gruppo Divisioni A. Garemi al Comando della Divisione “Stella”. Non conoscevo in tutti i particolari il contenuto di quel biglietto, ma sapevo, per il caso che avessi dovuto distruggerlo strada facendo, agli uomini della “Stella”, di lasciare subito quella località e portarsi in altre, più in alto e quindi più sicure e più adatte per una eventuale difesa.
Appena arrivata consegnai subito il foglio di cui ero latrice al Comandante Yura (Pagnotti). La risposta che ebbi fu quella che avrebbero senz‟altro lasciato la zona, come essi stessi avevano già deciso e ciò sarebbe avvenuto il mattino seguente come erano già impartiti gli ordini.
Dopo aver ricevuto queste rassicurazioni che avrei dovuto trasmettere al Comando, il mio compito poteva ritenersi esaurito e quindi cercai di ristorarmi un poco e dove passare al notte, poiché era un‟ora molto tarda, tale da non consentirmi di far ritorno alla base senza rischiare di fare dei brutti incontri, dato la zona più in basso, per la quale avrei dovuto necessariamente passare era continuamente perlustrata dalle pattuglie tedesche e fasciste.
Al mattino molto presto ero già pronta per la partenza quando alcuni partigiani vennero a dare l‟allarme del rastrellamento. Subito non mi resi conto di quanto stava avvenendo. Pensai che si trattasse di una delle solite puntate alle quali eravamo da tempo abituati, ma non di una azione di quella portata. Perciò non cercai di uscire dal paese come gli altri fecero.
Mi prodigai invece a fare le raccomandazioni alle donne di quelle case dove i partigiani avevano pernottato, di fare scomparire ogni traccia che avesse potuto rivelare il passaggio di questi. Ad un tratto, mentre facevo queste raccomandazioni, mi sono sentita afferrare da due e trascinata via, verso bosco. Erano due partigiani (uno di questi un certo “Giro”, l‟altro non lo conoscevo) che accortesi del pericolo che mi minacciava, cercarono di portarmi in salvo.
Appena fuori del piccolo centro abitato ci accolsero le prime raffiche di mitra che venivano dalla direzione di un campo di granturco. La gragnola di proiettili che ci investì, senza colpirci, diveniva sempre più nutrita man mano che ci allontanavamo dalle case. Ad un tratto caddi per terra incapace di muovermi. Credevo di essere stata colpita ed invece devo avere sbattuto con le gambe contro qualche pietra, di quelle messe dai contadini per delimitare le proprietà.
Lo stesso mi era impossibile continuare la mia fuga verso il bosco. Raccomandai gli altri di salvarsi loro e che io, come avessi potuto, avrei cercato la salvezza verso la più prossima casa. Non so come feci a raggiungere questa casa.
Nel breve tratto che mi separava da questa, trovai più di uno ostacolo per cui non facevo che cadere e rialzarmi, mentre le raffiche dei mitra tedeschi non cessavano di bersagliarmi. Arrivai così al punto di salvezza senza che nessun proiettile mi avesse colpito. Non fu così per la mia povera gonna che fu sforacchiata in più punti. Appena al riparo, nell‟interno di quella casa, i tedeschi sbattevano contro la porta reclamando di far sortire la signorina.
Seppure fosse una famiglia di brava gente, amici dei partigiani, gli inquilini che abitavano quella casa non sembrarono gradire la mia visita in quel particolare momento. Sapevano a quali conseguenze sarebbero andati incontro se i tedeschi si fossero accorti che io ero andata a rifugiarmi proprio lì.
Infatti non tardarono molto a raggiungere essi pure, la casa in questione. Dovevano essere dietro di me di poche decine di metri. Prima ancora che facessero in tempo di scardinare la porta con i calci delle loro armi, ebbi appena il tempo di raccomandare i miei ospiti di star zitti, di liberarmi dei vestiti esterni e farmi dare una vestaglia, ed in quelle condizioni andai ad aprire la porta che già stava per cedere sotto i colpi degli assalitori.
Cercavano la signorina che era entrata lì. Per rassicurarsi meglio che in quella casa non era entrata nessuna signorina feci loro vedere un po‟ dappertutto nelle stanze. Così non avendo trovato nessuna traccia della persona da loro inseguita, se ne andarono.
Gli indumenti dei quali mi ero liberata pochi istanti prima e che potevano, se trovati, compromettere tutto, erano stati accuratamente sepolti sotto un mucchio di patate. Una volta fuori i tedeschi e osservata meglio l‟ubicazione della casa ritornarono indietro e vollero guardare meglio dappertutto anche nei punti più riposti ma, come prima, la signorina non c‟era.
Così se ne andarono di nuovo e fu a questo punto che potemmo tirare un po‟ il fiato. Io ero ormai salva ma tutt‟intorno nei boschi era incominciata la tragedia. In ogni punto si sentiva il crepitio delle armi e gli urli degli uomini che venivano colpiti. Da ogni parte intanto si levavano nubi di fumo. Erano le povere case sparse qua e là nella zona che erano state date alle fiamme.
I nipoti degli Unni , ricalcando le orme dei loro avi, si erano scatenati non risparmiando niente e nessuno che avessero trovato sul loro passaggio. Non risparmiarono neppure quegli operai che lavoravano per loro sotto la Todt i quali, forse pensando al tesserino di cui erano provvisti, non cercarono a mettersi in salvo come fecero invece gli altri. L‟entità della tragedia che si era abbattuta su quel piccolo centro abitato potè essere vista soltanto alla sera quando cessò la fucileria e si potè andare in giro con meno pericolo di essere presi e fucilati.
Nessuno però aveva il coraggio di uscire dalla propria abitazione, questo anche per non vedere tutto il dramma di quella terribile giornata. Così, da sola, mi sono diretta verso il punto dove più forti erano stati gli scontri fra partigiani e forze tedesche. Per primo trovai un giovane partigiano di Castelgomberto (Caramba). Era ferito al ventre e non poteva fare nessun movimento. Nel frattempo incontrai anche il Cappellano della Parrocchia di Piana e con lui un ragazzino (Traforti) che era poi una staffetta dei partigiani. Lo chiamavano Topolino (tale era anche il suo nome di battaglia) perché era tanto piccolo, tanto da sembrare impossibile che potesse assolvere il delicato compito di staffetta.
Raccomandai il Cappellano di prendersi cura del ferito e lo avesse nascosto possibilmente in canonica dove sarebbe stato più sicuro. Intanto io continuai ad addentrarmi nel bosco e non tardai a trovare i corpi degli uomini caduti; civili e partigiani. Quanti fossero non lo so. So soltanto che erano molti, disseminati un po‟ ovunque. La cosa che però è necessario che sia conosciuta è quella che i tedeschi non soddisfatti del massacro da essi compiuto, quasi a testimonianza della loro natura, vollero fare scempio di quei corpi senza vita. Ricorderò Leo, un giovane partigiano di Brogliano che conoscevo bene oltre ad essere crivellato di pallottole ebbe, dopo morto, la testa sfasciata da una bomba.
Vi era un piccolo calabrese, un orfano, che era passato a far parte delle formazioni Garemi, insieme ad un gruppo di marinai, quando fu disarmato il ministero della Marina a Montecchio Maggiore, dopo morto era stato denudato e sul suo povero corpicino si potevano contare non meno di una sessantina di buchi, causati da proiettili, dai quali non era sortita goccia di sangue. Pochi degli altri corpi erano riconoscibili tanto erano orrendamente mutilati dalle soldataglie tedesche. Tutti erano stati alleggeriti di quelle poche cose che potevano avere con loro nonché delle scarpe e qualche indumento che, in tempo di guerra, poteva sempre rappresentare qualcosa.
Suonava mezzanotte all‟orologio della Piana, quando non c‟era più nessuna speranza di trovare qualche altro ferito da poter salvare. Un silenzio pesante regnava dappertutto. Allora decisi di tornare verso la Piana per prendermi cura del ferito. Invece che in canonica, come mi era stato promesso dal Cappellano, lo trovai in mezzo ad un campo. Il Parroco non aveva permesso che un Combattente della libertà, ferito, quasi morente, trovasse asilo e conforto sotto il tetto della Chiesa. Così ho passato il resto della notte accanto al ferito senza tuttavia potergli prodigare nessuna cura al di fuori di incoraggiarlo a sopportare il male per quelle poche di ore che mancano a farsi di nuovo giorno.
Al mattino, appena si fece giorno, passai di casa in casa per cercare i soldi ed un mezzo per il trasporto del ragazzo all‟ospedale. Non feci fatica a trovare la somma per l‟occorrente ed il mezzo che cercavo. La gente della Piana si mostrò generosa più di quanto si possa pensare: anche nella sventura che li aveva colpiti seppero trovare la forza ed i mezzi per venire incontro al prossimo. Così il giovane partigiano potè essere avviata all‟ospedale e qualche mese più tardi lo ritrovammo al suo posto di combattente.
Dopo aver avviato il giovane all‟ospedale ritornai nel bosco dover fu maggiormente accanito il combattimento, nel tentativo di trovare ancora qualche ferito. Fu però cosa inutile. Trovai solo dei morti orrendamente mutilati tale da renderli irriconoscibili. Ai tedeschi ed ai fascisti non bastava uccidere, ma dovevano fare scempio dei corpi delle loro vittime per sentire paga la loro bestiale ferocia. Passai quella intera giornata vagando per i boschi e per i campi senza rendermi conto del pericolo che correvo, ma ero decisa a rimanere in quel luogo fin quando quei poveri resti umani non fossero tutti raccolti e composti pietosamente nel cimitero della Piana, dove ebbero la sepoltura. Al mattino successivo, quando stavano giungendo le autorità, per il sopralluogo del caso, mi allontanai da quel luogo per ritornare alla base. Fu soltanto allora, quando ero ormai distante, che mi resi conto della vastità di quegli avvenimenti dolorosi. I miei nervi che avevano retto per due giorni mi abbandonarono. Anche il dolore che avevo represso per tutto quel tempo si sciolse in un pianto disperato. Sapevamo che la lotta comportava degli enormi sacrifici, ma lo stesso la perdita di un compagno non avveniva senza lasciare in noi il più grande dolore.
Ongaro Virginia