12 luglio 1944: San Valentino di Brendola, località Colombara
da una ricerca di Zorzanello
Il 12 luglio 1944 tre partigiani furono uccisi durante uno scontro a fuoco nella contrada S. Valentino di Brendola. Da dove provenivano, dove erano diretti?, a quale formazione appartenevano i tre partigiani? Furono fascisti o tedeschi coloro che li uccisero?
I primi documenti
Cominciamo dalla relazione, datata 14 luglio 1944, con cui il commissario prefettizio di Brendola, Gastone Zaccaria, comunica al capo della provincia di Vicenza, Edgardo Preti, al questore Cesare Linari e al commissario federale, Innocenzo Passuello, quello che era successo a Brendola un paio di giorni prima.
«Adempio il dovere di informarvi che, avuto sentore che un gruppo di ribelli si aggirava nel territorio di questo comune, ne informavo subito il locale comando germanico per l'azione repressiva.
Il 12 Corrente alle ore 22,30 circa riuscivo a sorprendere insieme ai soldati germanici i ribelli stessi, mentre erano di passaggio sulla strada Colombara. Ne seguiva uno scontro durante il quale rimanevano uccisi tre ribelli. Le salme non sono ancora state identificate, non essendosi trovato addosso alcun documento di riconoscimento. Si é in attesa del nullaosta dell'autorità giudiziaria per il seppellimento. Proseguono le indagini per la cattura e l'identificazione dei fuggitivi.»
È la prima relazione sull'imboscata e storicamente ha il pregio di essere scritta a due giorni dal fatto e da una persona che vi partecipò. Da essa si ricavano: la data e l'ora esatta dell'imboscata, 12 luglio 1944, ore 22,30; il numero dei partigiani uccisi, 3; i responsabili dell'azione repressiva: i tedeschi del locale presidio e Zaccaria che ne ha sollecitato l'intervento; l'esistenza di altri ribelli che sono riusciti a fuggire.
Fortunatamente (dal punto di vista storico) possiamo contare su altri documenti simili al precedente, cioè scritti quasi contemporaneamente ai fatti. Ci riferiamo al diario e alle lettere di «Ermenegildo», nome di battaglia di Alfredo Rigodanzo, 22 anni, allievo del liceo classico di Valdagno fino alla chiamata alle armi della sua classe. Egli era entrato in contatto con i partigiani della montagna verso i primi di aprile e da qualche settimana era stato nominato commissario politico del distaccamento di Selva di Trissino.
Il 7 luglio 1944 dal suo rifugio del Roccolo dei Righettini sul Faldo scrive a «Pino», Clemente Lampioni, commissario politico del battaglione Stella, suo diretto superiore: «L'altra sera é partita la pattuglia Ursus per vedere se sarà possibile piantare le basi di un nuovo distaccamento a Perarolo».
Queste due righe ci dicono: la data e il luogo della partenza della pattuglia che cadde nell'imboscata di Brendola, Selva di Trissino, sera del 5 luglio 1944; la meta, le colline di Perarolo; lo scopo, costituire un nuovo distaccamento.
Della pattuglia mandata a Perarolo fece ritorno il solo Giro, sulla relazione di questi Rigodanzo stese un rapporto.
La relazione di «Ermenegildo»
«Ermenegildo» si affrettò a mettere per scritto le informazioni di «Giro» e a inviarle immediatamente a «Dante». Le riportiamo integralmente dato che costituiscono la seconda relazione scritta sull'imboscata di contrà S. Valentino, redatta solo 3 giorni dopo quella del commissario prefettizio di Brendola.
«[La] pattuglia Ursus — scrive «Ermenegildo» il 17 luglio 1944 — recatasi al luogo definito, fu a quanto pare pedinata per diverso tempo. Rimasti senza viveri e soldi furono costretti ad abbassarsi. Pervenuti in una famiglia nei pressi di Brendola, mentre alcuni stavano prendendo del vino, altri fuori sono stati attaccati da una pattuglia tedesca a distanza. La nostra pattuglia si disperse, mentre Ursus e Palmiro restarono feriti, Giro e un altro riuscirono a fatica a portarsi in salvo i due compagni. Ursus non avendo potuto proseguire il cammino fu ricoverato in un ospedale per mezzo dell'interessamento del Comitato. È grave. Palmiro si trova attualmente a Montecchio maggiore ed è curato da alcuni collaboratori che sono effettivi della Marina. Giro é qui con me. Degli altri non si sa nulla. Speriamo in bene, per quanto sia stato fatto subito un rastrellamento e delle rappresaglie. Giorni prima Ursus é stato fermo a colloquio per circa due ore con dei responsabili del Comitato e da quelli seppe che alla loro volta seppero da fonte repubblicana quanto aveva fatto dalla sua partenza alla triste avventura».
Se confrontiamo la relazione di «Ermenegildo» con quella di Zaccaria notiamo che le informazioni per quanto riguarda la sorte dei componenti della pattuglia sono complementari: Zaccaria comunica la morte di tre ribelli, ma non conosce la sorte dei fuggitivi; «Ermenegildo» non sa nulla dei tre caduti, mentre conosce la sorte dei fuggitivi. Differente, ma non inconciliabile, è la narrazione della dinamica dell'imboscata. Secondo «Ermenegildo» «mentre alcuni stavano prendendo del vino, altri fuori sono stati attaccati da una pattuglia tedesca a distanza». Secondo Zaccaria: «riuscivo a sorprendere insieme ai soldati germanici i ribelli stessi, mentre erano di passaggio sulla strada Colombara».
I componenti della pattuglia «Ursus»
Ma da quanti e quali uomini era composta la pattuglia dei ribelli? La pattuglia di «Ursus» era composta da otto partigiani. La comandava «Ursus», Gino Ongaro, capo-pattuglia, 22 anni, originario di Recoaro, che poteva vantare un'anzianità partigiana risalente al gruppo di Malga Campetto. Ongaro aveva partecipato a importanti e rischiose azioni, come quella di Marana, (12 aprile '44), dove era stato ferito «Pino», e quella che aveva portato all'eliminazione del segretario politico del Pfr di Recoaro, Attilio Piccoli, il 17 maggio '44.
Tra gli altri partigiani vi era «Giro», Giulio Vencato, di anni 30 da Campotamaso, l'unico che riuscì a tornare alla base di Selva il 17 luglio 1944. Un mese prima, sorpreso in una contrada di Recoaro assieme ad altri 6 partigiani, era stato catturato dai fascisti e condotto a Recoaro. Mentre veniva trasportato con gli altri su un camion a Valdagno era stato liberato con un'azione ben combinata dai partigiani della zona agli ordini di «Dante» e di «Marco», Giuseppe D'Ambros. C'erano inoltre «Brill», Giuseppe Bevilacqua, 19 anni, da Selva di Trissino, cugino di «Ermenegildo»; «Cocco», Florindo Aver, di anni 22, nato a Sarcedo, residente a Cornedo; «Tordo», Luigi Nardon, di anni 33, da Valdagno; «Tino», Ilario Lovato, da Campodalbero; «Vasco» da Valli di Pasubio e «Palmiro», da Torrebelvicino.
La pattuglia di «Ursus» era arrivata a Selva assieme a quella di «Speranza» il 24 giugno 1944. «Ermenegildo» così descrive il loro arrivo nel suo diario: «Ero svegliato da poco, quando Muci [suo cugino] venne ad annunciare che Ursus e Speranza stavano attendendomi in cucina. In brevissimo [tempo] fui da loro. Quindi li accompagnai in una stanza appartata e lì mi dissero che erano le due pattuglie destinate a rimanere a Selva. Ero felicissimo del loro arrivo e tanto che mi arrecò un po' di agitazione. Dopo poche parole convenevoli all'accoglienza, Ursus mi consegnò una lettera. Era di Dante. In essa mi si informava che ero stato nominato temporalmente commissario di guerra del nuovo distaccamento, mentre mi elencava in seguito i doveri che devo svolgere. Subito un lampo di gioia mi attraversò tutto, ma ciò fu per poco».
I doveri di un commissario di distaccamento, specificava «Dante» nella sua lettera del 22 giugno, erano: «educazione morale degli uomini, provvedere a tutti i bisogni morali e fisici degli uomini (in pratica procurare delle buone pastasciutte e dei fiaschi neri), approvare le azioni che i capipattuglia propongono: se tu credi siano politicamente e militarmente da farsi, si facciano».
Certamente approvate da «Ermenegildo», perciò, furono le azioni che la pattuglia «Ursus» effettuò dal suo arrivo a Selva alla sua partenza. Ricordiamo le principali: - Prelevamento ad Arzignano della «Katia», Maria Boschetti, perché ritenuta responsabile della cattura e fucilazione di «Ubaldo», di cui abbiamo parlato precedentemente. - Arresto ed eliminazione di Pietro Dal Maso, oste di Pugnello, accusato proprio dalla Katia di essere una spia dei fascisti.
- Prelevamento dal Comune di Nogarole, dove era podestà lo zio di «Ermenegildo», Pietro Rigodanzo, di una macchina da scrivere.
In contrada Guarenti
Il 12 luglio «Ursus» e i suoi, ormai a corto di viveri e di denaro e privi di direttive, decidono di dar per conclusa la loro missione e di far ritorno in montagna. Prima, però, pensano di mettere a segno un colpo ai danni dei fascisti. «Avevamo sentito — testimonia «Ursus» — che a Vo' di Brendola due ufficiali fascisti visitavano quasi tutte le sere a bordo di un'automobile delle ragazze della contrada. Abbiamo pensato di disarmare i fascisti, dare una lezione alle ragazze, requisire l'automobile e con questa tornare in montagna per vie traverse».
E così si accingono a fare. La sera del 12 luglio «Ursus» e i suoi scendono dalle colline di Brendola e si dirigono verso Vo'. Si fermano a mezza collina nella contrada Guarenti dove Giuseppe Castegnaro con i suoi famigliari e con l'aiuto di amici e conoscenti, come si usava allora, stanno trebbiando il frumento nella corte. Il Castegnaro era padre di 12 figli e coltivava a mezzadria i campi dell'avvocato Girotto, che viveva a Vicenza. I partigiani chiedono qualcosa da mangiare e Emilia, la figlia di 19 anni del Castegnaro, li fa accomodare in cucina. Riportiamo a questo punto la sua testimonianza, rilasciataci a Brendola il 29/1/97: «Stavo preparando la cena per gli uomini che avevano trebbiato tutto il giorno, quando arrivarono i partigiani. In cucina si tolsero gli zaini, posarono le armi e si sedettero. Diedi loro pan biscotto, salame e vino nero. Erano di buon umore e scherzavano tra loro e con me. Invitarono mio padre a non consegnare all'ammasso tutto il frumento, ma di trattenerne una parte per la famiglia. Mio padre non si sbilanciò: non sapeva con chi aveva a che fare. Intanto era calata la sera e i contadini nella corte avevano fermato la trebbiatrice e smesso di lavorare. Mio padre rientrò in casa facendo capire ai partigiani che era ora di togliere il disturbo. Non se lo fecero ripetere: si alzarono e si diressero verso la contrada S. Valentino che si trova giusto sotto la nostra.
Intanto – continua la testimonianza di Emilia – gli uomini che avevano trebbiato tutto il giorno si erano da poco seduti a tavola, i bambini e le donne in cucina, quando entrò in casa un tedesco, gridò qualcosa nella sua lingua e sparò tre colpi di mitra sopra la testa degli uomini che stavano cenando. I colpi si conficcarono sul quadro che aveva di fronte e che rappresentava lo zio in divisa militare (il quadro con i fori lo conserva ancora mio fratello che vive ad Alte). Mio padre capì immediatamente la situazione e ordinò a tutti di alzare le mani. I tedeschi (erano tre) si resero subito conto, dopo aver consultato il commissario prefettizio Gastone Zaccaria che li guidava, che quegli uomini con le mani alzate piene di calli non erano i partigiani che cercavano. Dopo aver chiesto informazioni, forse rendendosi conto della loro inferiorità numerica, offrono un'arma anche a Danilo Rigolon, che aveva svolto fino a quel momento l'incarico di controllore della trebbiatura, dando per scontato che fosse dalla loro parte. Il Rigolon però rifiuta. Poi presero la stessa «cavesagna» sulla quale si erano incamminati poco prima i partigiani».
L'agguato
I partigiani, nel frattempo, avevano raggiunto la casa di Vittorio Maran in contrada S. Valentino. «Ursus» conosceva il Maran perché in passato aveva fatto con lui un po' di borsa nera, comperando frumento, tabacco, vino e altri generi di prima necessità che scarseggiavano nelle contrade di montagna.
Maran appena li vide manifestò apertamente la sua preoccupazione per la loro presenza, ricordando quello che era accaduto appena un mese prima a Grancona. «Ursus» per tranquillizzarlo gli suggerì che se avesse avuto delle noie da parte dei fascisti avrebbe dovuto dichiarare che i partigiani erano entrati in casa con le armi in pugno.
Ormai era diventato buio. «Giro», il più prudente della pattuglia, si offerse di fare la guardia fuori della casa. Qualcuno però uscì e lo invitò ad entrare, perché sarebbero ripartiti subito. Ebbe appena il tempo di prendere in mano un bicchiere di nero che sentì le pallottole di una raffica di mitra sibilare sopra la sua testa e vide una figura con la divisa tedesca stagliata sulla porta da dove era entrato e come prima reazione colpì la fioca luce che illuminava la stanza.
La situazione divenne subito disperata per gli otto partigiani che si trovavano nella cucina di Vittorio Maran: al buio, rinchiusi in una stanza, con un soldato tedesco alla porta pronto a far fuoco di nuovo. Uno dei primi che riuscì a riprendersi dallo choc gridò: «fuori tutti» e spinse quelli che gli erano più vicini verso quella che sembrava l'unica via di salvezza, la porta che dava sulla corte. A quella porta però erano appostati gli altri due tedeschi che, non appena comparvero i partigiani, aprirono il fuoco e ne uccisero tre, «Cocco», «Tordo» e «Brill» (al cui nome vennero poi intitolati tre battaglioni della Stella). «Ursus» fu colpito da 5 pallottole alla gamba. Anche «Palmiro» e «Tino» furono feriti. «Vasco» non era ancora uscito e poté nascondersi tra le botti della cantina. «Giro», uscendo, inciampò sui corpi dei compagni e cadde, evitando così di essere colpito.
Probabilmente i tre soldati tedeschi, non sapendo quanti partigiani armati fossero rimasti nella casa e se altri si trovassero nelle vicinanze, preferirono ritirarsi, essendo troppo pochi sia per controllare la zona sia per fare un vero rastrellamento, tanto più di notte (con loro si trovava solo il commissario prefettizio di Brendola, Gastone Zaccaria).
«Giro» porta in salvo i feriti
«Giro», appena poté, raggiunse strisciando la rete dell'orto e, favorito dall'oscurità, si mise in salvo nei campi circostanti. Dopo un po', ripresosi dallo choc e non vedendo altri compagni dietro di sé, né sentendo rumori particolarmente sospetti, ritornò sui suoi passi, fermandosi a prudenziale distanza dalla casa. Non tardò a udire lamenti affannosi. Si avvicinò e vide due compagni feriti: «Ursus» e «Palmiro». Uno alla volta li trasportò il più lontano possibile dalla casa, nascondendoli in mezzo ai campi di sorgo, dove passarono la notte.
Giunta la mattina, alla fatica e al dolore si aggiunsero anche la preoccupazione e la paura di essere individuati, dato che per tutto il giorno passarono e ripassarono le camionette militari dei fascisti della «pattuglia della morte» di Vicenza, quegli stessi che erano stati gli autori, un mese prima, dell'uccisione dei 7 martiri di Grancona. Infatti, il reggente del fascio di Brendola, Mario Tassoni, non potendo contare che su pochi iscritti al fascio repubblicano, si era precipitato a Vicenza per chiedere l'intervento della federazione provinciale. Lo stesso Tassoni conduceva il plotone alla ricerca dei partigiani17. Alla sera, pur non avendone individuato alcuno, i fascisti scattarono una foto di gruppo nella piazza di Brendola a ricordo di quella particolare battuta di caccia. Al centro della foto risalta, perché in borghese, Gastone Zaccaria.
Intanto dei due partigiani feriti, «Ursus» e «Palmiro», particolarmente gravi si rivelavano le condizioni di «Ursus», che, febbricitante, con l'arma puntata contro «Giro», minacciò di sparargli se non si fosse allontanato immediatamente, finché era in tempo. «Giro» tentò di calmarlo e, muovendosi con ogni cautela, cercò l'aiuto di qualche contadino. Finalmente incontrò una donna che passava lì vicino. Riportiamo a questo punto le parole di «Giro»: «Quando la donna mi vide, cominciò a strillare e a scappare in preda al panico. Dovevo avere infatti un aspetto terrificante: gli occhi spiritati per le fatiche e le emozioni della notte, sporco di sangue e con gli abiti strappati e infangati. — Non gridi signora — le ingiunsi — Qui vicino ci sono due giovani feriti, di cui uno grave. Se lei ha dei figli sotto le armi, forse anche loro in questo momento potrebbero avere bisogno di aiuto». Colpita da quelle parole la donna, Luigia D'Ambros, classe 1904, che era affittuaria della famiglia Rossi, promise che qualcosa avrebbe fatto. Infatti qualche tempo dopo riapparve con grappa mista ad alcool denaturato, delle uova e un telo per riparare i feriti dal sole. A pomeriggio inoltrato «Giro» si caricò sulle spalle «Ursus», che non riusciva più a muoversi perché la gamba si era ingrossata ed indurita, e lo portò alla villa dell'ing. Rossi sulle colline di Vo' di Brendola. Qui, sotto il portico, lo attendevano la famiglia Rossi, due dottori di Vicenza e il parroco di Vo', don Giovanni Buratti. «Giro» consegnò loro «Ursus» e ritornò da «Palmiro», che aveva lasciato in mezzo ai campi.
Il ritorno a Selva
Un po' sorreggendo, un po' trascinando «Palmiro», «Giro» riprese la strada di ritorno, portandosi dietro anche le armi dei due compagni feriti. Ad un certo punto ricevette l'aiuto insperato di Carlo Segato e dei suoi uomini che, informati dell'accaduto, si erano precipitati nella zona. Con loro raggiunse la casa dei Camerra a SS. Trinità, dove, come abbiamo visto, aveva fatto sosta la pattuglia «Ursus» quando era scesa da Selva. Sappiamo che la casa era diventata punto di riferimento anche per il gruppo dei quattro-cinque marinai che complottavano contro il presidio della Marina. Per questo «Ermenegildo» comunicò a «Dante» che «Palmiro» si trovava a Montecchio M., curato da alcuni collaboratori che sono effettivi della Marina , mentre Carlo Segato e i suoi si premurarono di inviare a SS. Trinità il dottor Molon, sfollato da Vicenza a Sovizzo, affinché si prendesse cura del ferito.
«Giro», un volta lasciato in buone mani «Palmiro», si dirige verso Selva per i sentieri che seguono il crinale delle colline sulla sinistra dell'Agno. Gli imprevisti però per lui non sono terminati. Giunto nella zona di Castelgomberto si imbatte nella pattuglia di «Capriolo», Rodolfo Peripoli, la quale si sta dirigendo dietro esplicite direttive di «Dante » e «Pino», a Noventa. La pattuglia è inquieta, dubbiosa e poco affiatata. Sembra ad alcuni di essere pedinati da sconosciuti dai Massignani alti. I loro timori aumentano quando, per caso, incontrano un esponente o presunto tale del Cln, il quale li mette in guardia sul fatto che due o tre esponenti della polizia fascista erano riusciti ad infiltrarsi nelle file partigiane. Ad aumentare i sospetti concorre il comportamento di due nuovi aggregati, «Piuma» e «Michele», Armando Giorio, inviati in montagna dal Cln di Vicenza. Il primo si rifiuta di seguire la pattuglia in quanto si sente ingannato dato che il Comitato gli aveva promesso che nelle fila partigiane avrebbe ricoperto l'incarico di autiere; il secondo, «Michele», insiste per condurre la pattuglia per vie che solo lui conosce.
Non è necessario, perciò, che Giro racconti con eccessivi particolari quello che è accaduto alla pattuglia «Ursus» a Brendola, perché «Capriolo» e i suoi decidano di non fare un ulteriore passo verso la pianura. Effettuata qualche requisizione nelle case di alcune famiglie fasciste della zona, il 17 luglio raggiungono Selva di Trissino in compagnia di «Giro».
L'arrivo di «Giro» e della pattuglia Capriolo è, come abbiamo visto, la ragione forte per rimandare ulteriormente, questa volta definitivamente, la partenza di «Ermenegildo» da Selva.
Il ricovero di «Ursus» all'ospedale di Vicenza
Ritorniamo ora da «Ursus» che abbiamo lasciato a Brendola nella villa Rossi alle cure di due medici. Questi sono il dottor Vasco Savegnago e il suo assistente, i quali sono arrivati dall'ospedale di Vicenza, su invito esplicito dell'ingegner Rossi. I medici, appena vedono la gamba gonfia e nera, capiscono che per evitare la cancrena è necessario trasportare il ferito in una struttura ospedaliera e operare urgentemente. Il trasporto però è pericoloso: non è facile far passare inosservata una macchina fra i fascisti che pattugliano le strade del paese e attraverso i posti di blocco che sono situati in gran parte delle strade che entrano a Vicenza. Se si vuole salvare il ferito però non ci sono alternative.
Prima di salire sull'auto «Ursus» distrugge lettere e documenti compromettenti, consegna il binocolo all'ing. Rossi, riceve una manciata di monetine dal parroco di Vo', forse la raccolta delle offerte della messa di quel giorno. Per strade secondarie i due medici si dirigono verso l'Ospedale di Vicenza. Alla periferia della città fanno scendere il ferito e lo depongono in un campo vicino alla strada, appoggiato ad un mucchio di fieno. Fanno uscire quindi dall'ospedale un'autoambulanza, la quale raccoglie il ferito e a sirene spiegate ritorna in ospedale.
All'accettazione dell'ospedale «Ursus» dichiara di chiamarsi «Ermenegildo» Torti da Trissino e di essersi procurato le ferite cadendo da un albero. Per evitare controlli di altri sanitari, i due medici bendano immediatamente la gamba del ferito con una fasciatura così stretta che quasi provoca danni più gravi delle pallottole tedesche.
Se molti di coloro che lavorano all'ospedale sono inclini a chiudere un occhio e a non far domande su quel ferito, non così il responsabile dell'accettazione, il rag. Nicolò Rizzoli, il quale decide che è suo dovere vederci chiaro, anche perché dovrà ben presentare il conto della degenza e delle cure a qualcuno. Telefona, quindi, al Comune di Trissino per saperne di più su quell'Ermenegildo Torti. Ritorna dal ferito e gli contesta che nessun Ermenegildo Torti è residente nel Comune di Trissino. Anche un infermiere commenta di fronte ad «Ursus»: «L'ho detto subito io che questo è un uomo della montagna». «Ursus» protesta, si indigna, si arrabbia, tira in ballo la sua amicizia con il dottor Vasco Savegnago. Il ragioner Rizzoli non si fa impressionare dalle parole e va diritto a parlare con il dottor Savegnago. Ritorna dopo un po': «Mi deve scusare — dice con un tono più conciliante della voce - quelle signorine del Comune di Trissino non capiscono proprio nulla, sono delle vere incompetenti».
Ma per il ragioner Nicolò Rizzoli la faccenda è solo sospesa. Infatti dopo più di un anno da questa conversazione e precisamente il 23 agosto 1945, a guerra finita, egli invierà all'ufficio stralcio della brigata Stella la seguente lettera che riportiamo integralmente, dato che è una insospettabile conferma della testimonianza orale di «Ursus», sulla quale ci basiamo per ricostruire quest'ultima parte della ricerca.
«Il 13 luglio 1944 alle ore 18 venne qui ricoverato d'urgenza per ferita lacera al piede sinistro certo Ermegildo Torti, fu Luigi, classe 1922.
Comunicato l'accoglimento al Municipio di Trissino, questi rispondeva non esistere in quella anagrafe nominativi di tal genere.
Questo ufficio spedalità da indagini svolte venne a conoscenza che le generalità declinate dal ferito erano false e che verosimilmente il predetto doveva appartenere ad una formazione di patrioti, allora disgraziatamente considerata fuorilegge.
Data la nefasta situazione di allora lo scrivente sospese ogni ulteriore indagine per il recupero della spesa di degenza. Ora però, ad avvenuta liberazione, essendo conosciute le generalità autentiche dell'infermo e cioè Ongaro Gino, della classe 1922, già appartenente a codesta brigata col nome di battaglia Ursus si prega voler cortesemente provvedere al rimborso della spesa minima di ricovero, pari a numero 23 giornate di degenza e cioè dal 13 luglio al 5 agosto 1944 alla retta giornaliera di Lire 35. L'importo ammonta a 818,80 oltre il 4% per l'imposta sull'entrata. Si rimane in attesa di un cortese riscontro in merito. Il subcommissario prefettizio, Rag Nicolò Rizzoli».
Se al ragioniere Rizzoli bastò una scambio di opinioni con il dottor Savegnago per lasciare in pace «Ursus», certo questo non sarebbe bastato al poliziotto Rocco Sgorbati di Recoaro, che prestava servizio all'interno dell'ospedale. Costui, riconosciuto subito il compaesano, gli si avvicinò discretamente dichiarandosi disponibile a portare notizie alla famiglia. «Ursus» gli rispose a muso duro che se voleva fargli un piacere ignorasse la sua presenza in quel luogo, e stesse alla larga dal suo letto. Disposizioni a cui il poliziotto si attenne scrupolosamente. Dopo la guerra lo Sgorbati fu epurato dalla commissione delle Fonti demaniali di Recoaro perché fascista. Sarà «Ursus» a difenderlo, facendolo riassumere. Guai maggiori rispetto a quelli del ragioniere e del poliziotto avrebbe potuto procurare il dottor Batoski, medico tedesco che operava nell'ospedale di Vicenza. Costui entrò in sala operatoria proprio quando i dottor Savegnago, con l'aiuto dell'assistente, stava operando la gamba di «Ursus». Diede un'occhiata al ferito, un'occhiata ai medici e il suo silenzio fu più eloquente di mille parole.
Però in ospedale «Ursus» fu visitato anche da persone ben disposte nei suoi confronti. Una di queste fu don Giuseppe Sette, professore del seminario vescovile e cappellano delle carceri. Quasi ogni mattina gli faceva visita, gli regalava un pacchetto di sigarette da 10 e diceva a voce alta: «Fai presto a guarire che la tua mamma ti aspetta!» Una mattina a bassa voce lo informò che il vescovo Carlo Zinato gli inviava una bottiglia di Barolo chinato augurandogli una pronta guarigione. La bottiglia l'aveva in consegna la suora, la quale aveva l'incarico di somministrargliene un bicchiere al giorno quasi fosse una medicina.
Un'altra persona che «Ursus» mai avrebbe pensato di vedere in quel luogo fu «Dante», il proprio comandante di battaglione. Luigi Pierobon gli comunicò che qualche giorno prima i partigiani avevano effettuato una brillante azione: il disarmo del Sottosegretariato alla Marina di Montecchio Maggiore. «Vedessi quanta roba abbiamo trovato e trasportato in montagna!» fu il commento che più rimase impresso nella memoria di «Ursus».
Il ritorno in montagna
Nonostante il ferito non fosse completamente guarito (i medici nella fretta e per l'emozione avevano dimenticato all'interno della gamba sinistra una delle cinque pallottole che lo avevano colpito), decidono che è giunto il momento di dimetterlo. Il ritorno di «Ursus» in montagna si presenta però non meno rischioso e complesso di quanto lo fosse stato il suo ricovero, anche perché il ferito camminava ancora con difficoltà ecco come avvenne.
Il mattino del 6 agosto 1944 ad attendere «Ursus» fuori dall'ospedale ci sono due giovani donne inviate dal Cln di Vicenza, una delle quali è la professoressa Maria Sartori. Montano due biciclette da uomo, mentre a «Ursus» ne consegnano una vecchia e da donna. Per strade secondarie verso le 12 i tre arrivano alla Ghisa di Montecchio, proprio all'incrocio tra la valdagnese e la strada che porta a Tezze. Poco prima dell'incrocio vi è una fermata delle Ftv che serve quasi esclusivamente al presidio della Marina. La sorte vuole che il loro arrivo coincida con l'arrivo del treno e ci sia il pericolo che tra le numerose persone che salgono e scendono e tra i marinai che bazzicano intorno alla fermata qualcuno riconosca «Ursus». D'altra parte, vestito con una maglietta tutta sbrindellata, calzando in piena estate delle soprascarpe di gomma procurategli dal Cln, e un paio di pantaloni bianchi risalenti alla prima guerra mondiale, fornitigli dalla famiglia Rossi, egli può richiamare facilmente l'attenzione e suscitare più di qualche sospetto.
Le ragazze intuiscono il pericolo. Basta un'occhiata per decidere cosa fare. Simulando un incidente si buttano per terra sollevando abbondantemente le gonne. L'attenzione dei presenti è tutta su di loro, così «Ursus» approfitta per passare e imboccare la strada che porta a Tezze. Alcuni accorrono per aiutare le due ragazze, altri si offrono per condurle al pronto soccorso. Quando però le ragazze notano che il loro protetto è scomparso, reagiscono e protestano che non vogliono essere toccate. Chiedono di parlare con il militare più alto in grado: «I suoi uomini — gridano indignate — ci sono saltati addosso come ossessi.» Esigono scuse e severe punizioni per i colpevoli.
Intanto «Ursus» che ha superato il ponte della Poscola può permettersi il primo vero sospiro di sollievo da quanto è sceso dalla montagna. Mentre aspetta le due accompagnatrici mette una mano in tasca e la ritira piena delle monetine del parroco di Brendola. Adesso sa come spenderà il contributo della Chiesa alla liberazione della patria.
A S. Benedetto, ormai in zona partigiana, con le due ragazze che l'hanno raggiunto entra nell'unica osteria che si trova vicino alla chiesa, piena di gente, dato che è domenica. Riconosce e saluta «Ober», Pietro De Cao del gruppo di «Ermenegildo», che sta giocando a bocce e offre una birra alle ragazze. Quando paga, l'oste rimane sorpreso per la quantità di monetine che gli mette sul tavolo.