IMBOSCATA DI RIVA DI STARO
Riva è una contrada situata al margine inferiore di un largo declivio di prati e pascoli che dal paese di Staro scende verso Valli del Pasubio. Di lì transitò alle 3 del mattino di lunedì 8 maggio 1944 una nutrita pattuglia di partigiani diretta a Recoaro perché vi era in programma un grande raduno di combattenti a Malga Campodavanti per la fondazione della 30ª brigata garibaldina “Ateo Garemi”.
Il capopattuglia era Stefano (detto Nino) Stella “Traingher”, un giovane di Torrebelvicino, che fin dai primi di marzo faceva parte del gruppo di Malga Campetto. Il 15 aprile 1944 era stato anche ferito a Marana, durante uno scontro con i fascisti. Egli con dodici uomini era salito ai primi di maggio sul monte Novegno, per ricevere un aviolancio alleato. Ma l'aereo non passò e così, domenica 7 maggio 1944, i dodici erano scesi verso S. Antonio. Alla sera si incontrarono in contrada Stònera con la pattuglia di partigiani di Valli del Pasubio, comandata da Domenico Roso “Binda”. L'incontro aveva lo scopo di formare il gruppo che sarebbe partito per il raduno di Malga Campodavanti. La scelta cadde appunto sulla pattuglia di Nino Stella, alla quale si unirono lo stesso “Binda” e Walter Pianegonda “Rado” . Quattordici uomini in tutto. Costoro, lasciata la contrada Stònera , fecero sosta in contrada Codivolpe, proprio nella casa di “Binda". Qui consumarono la cena a base di gnocchi di patate preparata dalle ragazze della contrada. Stabilirono anche l'itinerario da percorrere evitando di passare per Staro perché avevano sentito che quel giorno il paese e le contrade alte erano state oggetto di un rastrellamento nazifascista. Scelsero così di transitare per Riva. Poco prima della mezzanotte il gruppo si mise in cammino.
In quella stessa notte, a Recoaro, il tassista Emilio Cornale fu chiamato con urgenza dal comando della locale sezione del partito fascista repubblicano per un servizio con la sua automobile nella quale salirono tre uomini, armati di tutto punto, compreso un grosso fucile mitragliatore, che ebbero difficoltà a far entrare nella macchina. I tre si fecero trasportare fino al Passo Xon. Qui scesero dall’auto e, dopo aver minacciato il tassista di non parlare con nessuno, gli ordinarono di ritornare a prenderli in quello stesso posto alle 6 del mattino. Si incamminarono poi a piedi nella notte piovigginosa scendendo verso la contrada Riva.
Qui giunti si appostarono sotto una barchessa sul lato sinistro della strada in direzione di Valli. Il grosso della contrada è collocato sul lato opposto. I tre piazzarono le armi in posizione di tiro e aspettarono in silenzio. Evidentemente qualcuno aveva fornito ai fascisti informazioni ritenute attendibili circa il percorso e gli orari dei partigiani.
Essi arrivarono intorno alle tre del mattino e si fermarono in mezzo alla contrada per una sosta. mentre alcuni si recavano a chiedere informazioni a una conoscente che abitava proprio sul lato opposto della strada davanti alla barchessa occupata dai fascisti. Costoro però, resisi conto che il gruppo di partigiani era molto più consistente di quato pensavano, non attaccarono e se ne stettero nascosti, protetti dall'oscurità e dalla pioggia.
E fu forse la pioggia la causa che scatenò l'inferno. Siccome, quella conoscente tardava, i partigiani che erano andati a chiamarla, per ripararsi dalla pioggia arretrarono sulla strada e si diressero proprio verso la barchessa ove erano appostati i fascisti. Questi vedendosi sul punto di essere scoperti, aprirono il fuoco con nutrite raffiche di mitra e lancio di bombe a mano. I partigiani non ebbero il tempo di reagire: chi poté si mise al riparo e la pattuglia in un lampo si disperse. Alcuni però furono colpiti dai proiettili o dalle schegge delle bombe. Tre di essi lo furono in maniera molto grave: il capopattuglia Nino Stella "Traingher" ebbe la vescica perforata e ferite al basso ventre e alle gambe; Domenico Roso "Binda" fu colpito anche lui all'addome; Severino Sbabo "Vecio" riportò invece gravi ferite a tutte e due le gambe.
Nino Stella nonostante le gravi lesioni riuscì a salire fino alla contrada Busellati e a ripararsi in una tezza in mezzo alle foglie. Severino Sbabo invece, con le gambe spezzate, si trascinò lungo la strada per una cinquantina di metri fino ad uno spiazzo cercando di nascondersi dietro ad una catasta di legname. Domenico Roso si spostò anche lui nella stessa direzione di Sbabo, fermandosi un centinaio di metri più avanti vicino ad altri grossi tronchi.
I tre fascisti, pur vedendo che non vi era stata alcuna reazione partigiana, temendo un contrattacco, se ne stettero rintanati nella barchessa. Solo quando cominciò ad albeggiare si fecero coraggio ed uscirono dal nascondiglio. Probabilmente fecero un giro per la contrada per assicurarsi che non vi fosse rimasto alcun ribelle e per rendersi conto degli effetti della loro azione. Il sangue abbondava nella piccola corte e sulla strada davanti alla barchessa ove erano appostati. Ne seguirono anche le tracce lasciate dai feriti e ben presto scoprirono Severino Sbabo nascosto sotto i tronchi e lo tirarono fuori. Con lui tornarono a Recoaro con l'automobile del Cornale.
Purtroppo dei tre feriti nessuno sopravvisse.
Il primo a morire fu Domenico Roso "Binda". Lo scoprirono gli abitanti della contrada quando presero il coraggio di uscire di casa. Lo soccorsero e cercarono di trasportarlo verso Valli, ma arrivati alla contrada Griglio, vedendo la gravità della situazione preferirono fermarsi e chiamare il medico dott. Pontivi. Dopo varie vicende il medico riuscì a visitare il ferito e provvide a trasportarlo all'ospedale di Schio, in via Baratto, dove alle ore 15,30 purtroppo mori. Venne sepolto a Valli del Pasubio il giorno successivo, con funerali che videro una partecipazione così grande da allarmare le stesse autorità fasciste.
Il secondo a cessare di vivere fu Nino Stella "Traingher". Come abbiamo visto, si era nascosto tra le foglie in una tezza in contrada Busellati. Venne recuperato da "Tarzan", Oscar Dal Maso, e trasportato in contrada Alpe di Recoaro. Varie staffette furono inviate a Valdagno, a Schio e a Recaoro, per trovare qualche medico che venisse a curarlo, ma nessuno si rese disponibile. Intanto venne sera e "Tarzan" non sapendo che fare, su suggerimento del comando partigiano che era in contrada Caile, decise di portare il ferito alla sua famiglia in maniera essa potesse provvedere a curarlo con più successo. Così con una barella di fortuna otto partigiani lo portarono a Torrebelvicino e alle quattro del mattino del 9 maggio bussarono alla porta della sua abitazione. Al vedere i famigliari Nino ebbe la forza di dire loro: «Sono venuto per il mio compleanno e anche se ferito lo festeggeremo». Era infatti nato il 10 maggio 1923 e quindi stava per compiere 21 anni. Ma le sue condizioni apparivano disperate tanto che fu subito mandato qualcuno ad avvisare il parroco e il dottor Sandri. Il medico, vista la gravità del caso, dopo le prime cure, ne consigliò l’immediato ricovero all’ospedale. Con una carrozza Nino Stella venne allora trasportato a Schio nello stesso ospedale in cui alcune ore prima era morto il suo compagno “Binda”. Qui venne accolto e curato, ma ormai era troppo tardi. Lottò ancora per qualche ora ma poi cedette: morì alle 18, dopo più di un giorno e mezzo dall’imboscata.
Il giorno successivo, 10 maggio 1944, i familiari si presentarono per ottenere il permesso di celebrare i suoi funerali nel loro paese. Le autorità fasciste però lo negarono timorosi che si ripetesse anche a Torrebelvicino ciò che era avvenuto il giorno prima a Valli del Pasubio. Disposero quindi che Nino Stella venisse sepolto senza cerimonie nel cimitero di Schio: «Fu sotterrato a Schio come un cane - racconta Teresina, la sorella di Nino - senza nemmeno portarlo in Chiesa e per fargli ancora del male gli fu bucata la bara». Per onorare questo capopattuglia, quando il 17 maggio 1944 a Campodavanti, come era in programma, fu costituita la brigata garibaldina "Garemi", uno dei due battaglioni di cui era composta fu a lui intitolato: era il battaglione "Stella", che in agosto diventò a sua volta brigata.
Mentre i destini di Domenico Roso e di Nino Stella arrivavano al tragico finale, si compiva anche quello del terzo partigiano ferito gravemente nell'imboscata fascista, Severino Sbabo “Vecio”.
Colpito alle gambe era stato trasportato a Recoaro dagli stessi fascisti che gli avevano sparato.
Evidentemente le ferite, pur gravi, non erano mortali e la sua giovane età - non aveva ancora compiuto vent'anni, essendo nato il 22 luglio 1924 - certamente lo aiutava. Alcune testimonianze affermano che egli fu fatto sfilare dai fascisti per le strade di Recoaro con al collo un cartello con scritto "BANDITO". Sembra che poi il ferito sia stato ceduto ai tedeschi che l'hanno portato dal medico condotto, dott. La Torre, per le cure del caso. Quello che è successo poi non è chiaro: alcuni parlano di ricovero all'ospedale, altri di sevizie e torture per strappargli informazioni sui "ribelli", di un nuovo ritorno a Recoaro e poi ancora a Valdagno, di ulteriori passaggi di mano tra i fascisti e i tedeschi.
Il fatto certo è che il suo supplizio durò tre giorni e mezzo, dal lunedì dell'imboscata alle ore 15 di giovedì 11 maggio 1944, quando qualcuno decise di porre fine alla sua esistenza. I tedeschi lo trasportarono a Cereda di Cornedo Vicentino, dove, appena fuori dall'abitato, lo fucilarono. Lo uccisero a Cereda probabilmente perché esattamente un mese prima in quella località erano stati rapiti dai partigiani e fatti sparire i coniugi Guiotto, accusati di essere spie fasciste.
La risposta partigiana all'imboscata fascista di Riva di Staro non si fece attendere. La domenica successiva, 14 maggio 1944, il segretario del Fascio di Recoaro, Attilio Piccoli, venne tratto anche lui in un'imboscata e ucciso a Staro. Ma questa è un'altra storia che merita un racconto.