Nella seconda guerra mondiale contro i tedeschi si svilupparono diversi e importanti movimenti di guerriglia che possono essere ricondotti a due modelli principali:
In Italia si sviluppò prevalentemente una guerriglia del secondo tipo, ma vediamo un po’ la storia dello svilupparsi di questi due modelli.
Fin dal momento dell’approssimarsi della caduta della Francia Churchill propose lo svilupparsi di una guerriglia gigantesca. L’idea era quella di un movimento, basato soprattutto su formazioni dell’esercito francese, che potesse colpire i tedeschi sul suolo occupato mentre il Regno Unito si attrezzava e li combatteva in campo aperto.
Caduta la Francia il Regno Unito sviluppò una forma di attacco basata su piccole unità (i commandos) che colpivano il lunghissimo fronte costiero dell’asse e, dopo l’azione, si ritiravano. Era una strategia molto pagante perché con un dispendio modesto di forze costringeva l’asse a tenere impegnate in guarnigioni forze 10 volte superiori a quelle dei commandos.
In parallelo a tale strategia il Regno Unito sviluppò il SOE (Esecuzione operazioni speciali) che aveva il compito di creare unità combattenti oltre le linee nemiche che agissero sotto il comando a distanza degli inglesi. Tali unità combattenti non dovevano palesarsi fino al momento dell’azione; giustamente in Francia furono chiamati l’essercito delle ombre.
In Yugoslavia invece, fin da un mese dopo l’occupazione tedesca, Tito diede la direttiva di costituire unità di autodifesa per proteggere i villaggi dai massacri e dalle rapine dei tedeschi e dei loro alleati (i Cetnici e gli Ustascia). Queste unità di autodifesa rapidamente confluirono in un esercito di liberazione nazionale che adottò divise, gerarchia e comando centralizzato. Questo esercito si articolava su bande mobili di guerriglieri (nelle pianure del Nord) e divisioni inquadrate di soldati di un vero e proprio esercito nelle foreste della Bosnia e del Montenegro. L’esercito di liberazione nazionale yugoslavo resistette, senza alun aiuto dall’esterno, per oltre tre anni tenendo impegnate ben 26 divisioni tedesche che, per esempio a Stalingrado, sul fronte russo avrebbero fatto la differenza.
In URSS lo STAVKA (comando supremo) all’invasione (22 giugno 41) diede la direttiva di sabotare le lunghissime linee di comunicazione tedesche; fermata l’avanzata alle porte di Mosca strutturò meglio i partigiani mandando quadri preparati, armi e munizioni. Una caratteristica unica del movimento partigiano russo fu che nelle zone sotto il controllo dei partigiani vi era quello che potremo chiamare leva obbligatoria. Ogni giovane in età di combattere doveva entrare nelle fila partigiane.
Anche in URSS, come in Yugoslavia, l’adesione al movimento partigiano era irreversibile: una volta entrato non potevi ritirarti; non esisteva come per le bande del SOE la possibilità di agire e poi tornare alla vita normale.
In Italia si verificò una cosa non prevista: il Partito Comunista (che in realtà era un piccolo gruppo di quadri politicamente induriti da 20 anni di persecuzioni) diede la direttiva di attivare dovunque delle formazioni combattenti che attaccassero, subito, senza attendere ulteriori ordini o direttive, il nemico dovunque si trovasse, non aspettandosi aiuto da nessuno e prendendo le armi di cui avevano bisogno al nemico.
Contemporaneamente i residui di quello che era stato l’esercito italiano si ritiravano sui monti e sulle colline cercando di mantenere unità, gerarchia e attendendo ordini dal re e da Badoglio; questi le armi le avevano e, in taluni casi, anche parecchi soldi.
Fu questa, più che l’aderenza politica, la fondamentale divisione del movimento partigiano italiano.
La direzione del SOE si trovò con questa situazione che in gran parte non si aspettava e, fino al tardo ’44, mantenne la sua visione strategica: una gigantesca guerriglia, ma diretta dal SOE stesso.
Chiaramente le bande azzurre o verdi erano le uniche disposte ad attendere gli ordini via radio del SOE, i comunisti continuavano ad attaccare i tedeschi e a morire e degli ordini del SOE non sapevano cosa fare.
Fu altrettanto evidente che gli aiuti che gli inglesi potevano mandare alla guerriglia italiana, in questo quadro, andavano molto di più alle bande verdi, azzurre che a quelle rosse. La pretesa degli inglesi arrivò al punto di paracadutare ufficiali che avrebbero dovuto comandare le formazioni partigiane. Questo tentativo fallì miseramente perché anche le bande badogliane si opposero. Il motivo era molto semplice: l’armistizio prometteva che l’Italia alla fine della guerra sarebbe stata trattata in funzione dell’impegno che avrebbe dato alla lotta contro il tedesco. Ma gli inglesi (gli americani erano una storia un po’ diversa) arruolarono 200.000 soldato al sud per farne mulattieri, facchini, scaricatori di porto, ma alla fine armarono (inizio 1944) meno di 10.000 uomini da mandare sul fronte a combattere. A questo punto Ivanoe Bonomi (Presidente del Consiglio) mise il proprio cappello sui combattenti partigiani al Nord dicendo che quelli combattevano per il Governo Italiano. Ciò irrigidì le posizioni dei badogliani verso il SOE e costrinse il comando supremo alleato per il mediterraneo a potenziare l’esercito “regolare” italiano che combatteva al fronte. Sempre però con disprezzo e diffidenza: alla fine, per l’assalto finale, erano schierate ben 4 divisioni italiane (Legnago, Folgore, Friuli, Cremona) tutte però divise in diversi corpi d’armata: in altri termini sotto il comando inglese.
Certamente gli inglesi pensavano anche al dopoguerra, ma, ad avviso di chi scrive, non fu l'anticomunismo a dettare l'orientamento verso le formazioni quanto, piuttosto, l'idea del controllo.
Ma l'ipotesi strategica del SOE, in termini militari, era efficace?
Possiamo tranquillamente dire NO. L'idea di un esercito delle ombre che assale al momento giusto, sotto il comando degli inglesi, il nemico si rivelò, militarmente, un disastro: ebbe modesti risultati in Francia (e c'era un de Gaulle che spingeva), nulli in Belgio, Olanda; scarsi in Norvegia, tragicamente terribili in Polonia (insurrezione di varsavia)